Profilo di Rocco Scotellaro (Parte seconda): Le opere in prosa

di Antonio Lucio Giannone

4. Le opere in prosa: L’uva puttanella  e i racconti.

 Anche L’uva puttanella, come la maggiore parte delle prove narrative di Scotellaro, è un’opera a carattere autobiografico, rimasta incompiuta e uscita postuma nel 1955 con una prefazione di Carlo Levi, che  la collegava  al risveglio del mondo contadino meridionale, fino alla completa identificazione con esso, sostenendone l’unitarietà. Nel 1986 è apparsa una nuova edizione, in tre parti, curata da Franco Vitelli, secondo il quale invece L’uva puttanella  “va letta e goduta per quello che è, per pezzi autonomi, senza inventare un mastice strutturale che non c’è”[1]. In effetti si tratta di un’opera composita, nella quale le esigenze narrative e realistiche s’ intrecciano e a volte si scontrano, come succede spesso in Scotellaro, con la tensione lirica di fondo. Da qui deriva anche la difficoltà di definire esattamente il genere a cui essa appartiene (romanzo, inchiesta, autobiografia, memoriale).

             La genesi dell’Uva puttanella, a cui Scotellaro lavorò tra il maggio del 1950 e il gennaio del 1953, va rinvenuta nell’esperienza traumatizzante del carcere, che costrinse lo scrittore a ripensare alla propria attività politica, ma, prima ancora, alla sua vicenda di uomo, entrambe segnate, a suo giudizio, da un fallimento, da una sconfitta. Altamente significativi sono, a tale proposito, i frammenti e gli appunti tratti dai quaderni di quest’opera, caratterizzati da un profondo pessimismo. I quarantacinque giorni trascorsi nel carcere di Matera inducono Scotellaro a rivedere molte certezze, facendogli accarezzare addirittura l’idea del suicidio: “Io non so che fare, forse mi ucciderò, sarà l’unico gesto normale, di cui spero che sia capace. Penso che Dio è l’uomo più furbo di questa terra, sta nascosto in un buco per manovrarci così bene”[2]. Si accorge della propria “diversità” rispetto agli altri, che sono uguali a lui soltanto “nel disamore e nella morte”[3], fino alla perdita della propria identità: “Non era  contadino, non era un disperato vero, un calzolaio, né un prete, né avvocato, né giudice, per quale legge dunque si muoveva?”[4].

            Ma, accanto alle riflessioni sulla propria condizione, ci sono pure quelle sulla realtà meridionale, ancora una volta strettamente accomunate: “Io e il mio paese meridionale siamo l’uva puttanella, piccola e matura nel grappolo per dare il poco succo che abbiamo”[5]. E la metafora dell’uva puttanella, cioè di quell’uva che ha acini più piccoli, senza semi, i quali maturano più lentamente, ma alla fine sono più dolci di quelli normali, sta proprio a significare il contributo tardo, ma prezioso, che il Sud avrebbe dato alla società italiana: “Questi sono acini piccoli, aspireni, seppure maturi, che andranno egualmente nella tina del mosto il giorno della vendemmia. Così il mio paese fa parte dell’Italia”[6].

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