Quella volta che incontrai Gianni Celati

Io ed Enrico eravamo reduci da un anno di dure battaglie letterarie condotte contro tutti coloro che si frapponevano al nostro cammino di rivistaioli in erba. In particolare, avevamo eletto a nostri nemici letterari gli scrittori della rivista online Nazione Indiana: Tiziano Scarpa, Raul Montanari, Carla Benedetti, Antonio Moresco, ecc., contro i quali avevamo passato mesi e mesi a polemizzare senza costrutto e in modo pretestuoso, come accade a quelli che vogliono darsi sempre e per forza ragione. A Frascati eravamo giunti alla fine di questa lunga guerra, quando già apparivano all’orizzonte le prime avvisaglie di quanto sarebbe accaduto di lì a poco. Finita la guerra totale contro il nemico, infatti, avremmo rivolto le armi contro noi stessi. Gianni mostrò di sapere quello che avevamo combinato fino ad allora – Enrico probabilmente gliene aveva parlato – e, durante la cena,  non esitò a disapprovarlo, facendoci sentire davvero come degli studentelli immaturi. Gli chiesi: “Ma se tutto quello che abbiamo fatto è sbagliato, ora che cosa dovremmo fare?”. Rispose: “Nulla. Tornate a fare quello che avete sempre fatto!”. Così ci disse con un tono duro e severo, un tono di rimprovero che non ammette repliche e mi lasciò sbalordito perché non scorgevo in quelle parole alcun programma letterario da perseguire, mentre vedevo improvvisamente cadere il castello di inutili, sebbene appassionate, polemiche nelle quali io ed Enrico avevamo sprecato per mesi il nostro tempo. E’ inutile dire che Celati aveva ragione e che anzi le sue parole prefiguravano il futuro: rivolte le armi contro noi stessi, dopo la fine del nostro sodalizio, io ed Enrico seguimmo  ognuno la propria strada, tornando a fare quello che avevamo sempre fatto, come aveva detto Celati.

Il giorno dopo, domenica, ci ritrovammo tutti nella sala delle Scuderie del Palazzo Aldobrandini. Noi pensavamo che sarebbe accorsa chissà quale folla per sentire quello che Zibaldoni e altre meraviglie avrebbe proposto per “la comunità avvenire”, come ci esprimevamo allora, ma presto dovemmo accorgerci che si era in non più di venti, gli scrittori che ho su menzionato più qualche amico venuto a trovarci. Celati volle che ci mettessimo seduti in cerchio. Ognuno disse la sua, Antonio Prete ci parlò di Leopardi e dello Zibaldone, Andrea Cortellessa fece un dotto discorso sulle riviste online, Franco Arminio si esibì come un artista di strada, io lessi il mio discorsetto che doveva significare l’importanza della rivista Zibaldoni.it, ecc. Intervenne anche Celati, disse che la scrittura deve nascere dal corpo, “questo fascio di nervi scoperti che vibra a contatto con la realtà”; se non c’è questa vibrazione, la scrittura è inutile ed è meglio fare altre cose. Parole che risuonarono come un altro rimprovero molto severo al nostro intellettualismo a buon mercato.

Faceva un gran freddo nella sala delle Scuderie, si era fatto mezzogiorno, e così decidemmo di andare a pranzo tutti insieme. Mangiammo in una specie di tavola calda dove ognuno si serviva da solo, pagava e mangiava seduto a un tavolino in gruppi al massimo di quattro persone. Questo non ci permise di parlare ancora tutti insieme, ma forse i discorsi erano finiti, ci eravamo detti tutto quello che c’era da dire e non rimaneva che pensarci su nel tempo avvenire. Alle due del pomeriggio eravamo fuori, per strada, a salutare quelli che partivano uno dopo l’altro, secondo un cerimoniale che doveva rassicurarci sulla possibilità futura di rivederci ancora. Gianni mi abbracciò, facendo aderire il suo corpo al mio come per trasmettermi il calore della sua persona; ed io intesi che alla severità e durezza del rimprovero egli faceva seguire la rassicurazione della sua disposizione amicale nel mentre ci sottomettevamo tutti alla solenne prova dell’addio.

Così andammo via, ognuno per la sua strada, a fare le cose che avevamo sempre fatto, e non ci rivedemmo mai più. Ma io me lo ricordo ancora Gianni Celati, e mentre rileggo le sue parole racchiuse nel Meridiano che Mondadori gli ha dedicato, esse vibrano dentro di me come fossero pronunciate dalla viva voce del loro autore, da un “fascio di nervi scoperti”, che un giorno seppe dirci come stavano effettivamente le cose.

[“Il Galatino” anno XLIX n. 8 del 29 aprile 2016, p. 4.]

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