Tre iscrizioni dal Museo “P. Cavoti” di Galatina*

A proposito dell’iscrizione citata sopra (Figg. 1-2), occorre rilevare che alla fine della linea 2 vi sono tre lettere: VET, per lo più omesse nelle edizioni correnti.



Figg. 1-2. Galatina. Chiesa di S. Maria delle Grazie, muro esterno. L’iscrizione dedicatoria della prima chiesa, 1508, con L’aggiunta VET(us) alla fine della linea 2. (Foto B.V.)

Non v’è dubbio che le tre lettere VET debbano essere intese come abbreviazione dell’aggettivo vet(us) («antico»): B(eatæ) Deipar(a)eq(ue) MariæPṛ(a)edicatorum Ordo (h)aud exiguo cum / labore civium huius urbis impensa condidit templum <vet(us)> / 1508 («L’Ordine dei Predicatori, con non poca fatica, a spese dei cittadini di questa città, fondò <l’antica> chiesa della Beata (Vergine) e Madre di Dio Maria. 1508.»). Dall’analisi paleografica delle lettere si può evincere che esse sono una aggiunta posticcia, appena graffita, che può essere agevolmente spiegata.

Sappiamo dalla Relazione di A. T. Arcudi del 1706-1707, che cita a conferma un manoscritto del 1619 del bisavolo Silvio Arcudi (1576-1646), che l’iscrizione in questione era originariamente collocata sulla facciata della chiesa, «sopra la porta maggiore». Evidentemente, quando la chiesa, fra il 1720 e il 1738, fu riedificata «dalle fondamenta» (e fundamentis) e una nuova iscrizione con la data del 1738 fu collocata sulla facciata della nuova chiesa, la vecchia iscrizione del 1508 fu recupe­rata e ricollocata sul muro laterale della nuova chiesa come testimonianza super­stite della “vecchia” chiesa cinquecentesca. Deve essere stato in questa fase sette­centesca di ricollocamento della iscrizione del 1508 che sono state aggiunte, senza troppo curarsi delle rifiniture, le lettere VET per qualificare come vet(us), «antico», il templum del 1508 che era stato completamente obliterato dalla nuova chiesa settecentesca riedificata «dalle fondamenta».

Nella Relazione l’Arcudi, fra gli altri meriti, si attribuisce quello di avere dotato il convento di «una commoda libraria, … non essendo prima di cinque anni che po­chi libri gettati in una camera piovosa che alla giornata si andavano consumando». Della biblioteca del convento è rimasto l’inventario dei libri allegato al verbale re­lativo alla soppressione e incameramento dei beni del convento, redatto il 21 set­tembre 1809 (conservato nell’Archivio di Stato di Lecce), nel quale sono registrate 629 opere in 928 volumi.

Nel convento i Domenicani risiedettero per tre secoli e qualche decennio: in con­dizione precaria, in un convento in costruzione, a partire dalla fine degli anni ’70 del Quattrocento; nella sistemazione definitiva, a partire dal riconoscimento effet­tivo del convento nel 1508/1525 e fino alla soppressione degli ordini religiosi e alla alienazione dei loro beni decretata nel 1807 e nel 1809 dai re “napoleonici” di Napoli Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e Gioacchino Murat (1808-1815), nel quadro generale delle leggi di soppressione della feudalità. Successivamente, nel 1853, gli Scolopi (Ordo Clericorum Regularium Pauperum Matris Dei Scholarum Pia­rum, «Ordine dei Clerici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie») fu­rono autorizzati ad insediarsi nell’ex convento dei Domenicani e ad aprirvi delle scuole pie che furono incrementate con la istituzione di un Convitto (o Collegio) e di un Liceo-Ginnasio. Le attività educative degli Scolopi si protrassero dal 1854 fino alla nuova soppressione degli ordini religiosi messa in atto dal Regno d’Italia nel 1866.

2. Le due iscrizioni latine

Le due iscrizioni latine (Figg. 2-3) sono incise sugli architravi di due porte mura­te, l’una di fronte all’altra, in un corridoio interno al primo piano del Museo “P. Ca­voti”. Le due iscrizioni, sono state così pubblicate nella Guida epigrafica di Galatina (2001), p. 11, e in Iscrizioni latine del Salento, VI (2004), p. 121:

1) Recreatio pauperum;

2) No(n) manufacta a(u)tem sed eterna in celis

e sono state ritenute espressione delle attività educative degli Scolopi che dal 1854 si insediarono nel dismesso convento dei Domenicani. Ma la paleografia delle due iscrizioni non è compatibile con una datazione ottocentesca.


Figg. 3-4. Galatina. Museo Civico “P. Cavoti”. Corridoio interno. Le iscrizioni latine sugli architravi di due porte murate. (Foto B.V.)

Le due iscrizioni presentano straordinarie affinità paleografiche non solo fra loro, ma anche con un’altra iscrizione latina incisa sull’architrave di una porta con­tigua alla sagrestia nella chiesa domenicana di Santa Maria delle Grazie: Benedicite nomini eius («Benedite il suo nome») (dal Salmo 96[95]:2: Cantate Domino, benedi­cite nomini eius, «Cantate al Signore, benedite il suo nome.») (Fig. 5). Le stesse ca­ratteristiche si riscontrano anche nella già citata iscrizione del 1508 sul muro esterno della chiesa.

L’insieme di questi elementi orienta verso una cronologia cinquecentesca in sen­so lato. Possiamo proporre una cronologia lungo il primo secolo di vita del conven­to dei Domenicani: grosso modo, fra le accettazioni del convento da parte dell’Ordi­ne nel 1508/1525 e il primo Seicento.



Fig. 5. Galatina. Chiesa di Santa Maria delle Grazie. L’iscrizione sull’architrave della porta adiacente alla sagrestia. (Foto B.V.)

L’iscrizione Recreatio pauperum («Sollievo dei poveri») può essere intesa secondo il significato attribuito al termine recreatio da Du Cange nel suo lessico settecentesco della latinità medievale: la recreatio è spiegata come relaxatio animi («distensione dello spirito») negli ordini monastici. L’iscrizione potrebbe forse indicare un locale (un refettorio, una sala di riunione o di studio?) destinato al «sollievo dei poveri» e degli stessi frati.

L’iscrizione No(n) manufacta … si presta a spunti di riflessione di particolare in­teresse. In essa, prima di tutto, bisogna registrare al centro della linea, fra a(u)tem e sed, un “vuoto epigrafico” in corrispondenza di un evidente deterioramento (ca­suale o intenzionale?) della pietra dell’architrave che potrebbe avere causato o una lacuna nel testo dell’iscrizione o la distruzione di un rilievo, di uno stemma.

Se si ritiene che il “vuoto” centrale occulti una lacuna di testo, l’iscrizione può essere così edita e tradotta:

No(n) manufacta a(u)tem [domus ?] sed (α)eterna in c(a)elis.

«Non, però, [casa ?] fatta da mano (umana) ma eterna nei cieli.»

Ma se si ritiene preferibile (come si dirà fra poco) che il deterioramento centrale occulti un rilievo, uno stemma andato distrutto, l’iscrizione deve essere così edita e tradotta, con il termine domus sottinteso all’inizio:

(sc.: Domus) no(n) manufacta a(u)tem [rilievo, stemma ?] sed (a)eterna in c(a)e­lis.

«(sc.: Casa) non, però, fatta da mano (umana) [rilievo, stemma ?] ma eterna nei cieli.»

Nella forma in cui si legge, il testo dell’iscrizione riprende senza dubbio un passo della Seconda lettera ai Corinzi di San Paolo, 4:18–5:1-4. Scritta nel 56/7 d.C. men­tre Paolo era in Macedonia, la lettera era indirizzata alla comunità cristiana della città di Corinto in Grecia. Paolo mette in guardia i Corinzi dai “falsi apostoli” che hanno trovato séguito in città predicando un vangelo diverso da quello da lui stesso predicato e li ammonisce a ravvedersi e a seguire la sua autorità (11:1-33).

Citiamo nella Vulgata latina il passo della lettera paolina riecheggiato nella no­stra iscrizione:

4:18 quae enim videntur, temporalia sunt, quae autem non videntur, aeterna sunt. 5:1Scimus enim quoniam, si terrestris domus nostra huius tabernaculi dissolvatur, aedificationem ex Deo habemus domum non manufactam, aeternam in caelis.

«4:18… le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne. 5:1Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio una abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli.»

In questo contesto, la domus di cui Paolo parla all’inizio del passo citato (5:1) è evidentemente il corpo inteso come “dimora” dell’uomo, paragonata ad una “ten­da”; in cambio di questa, i cristiani riceveranno una dimora in cielo, che non è “fatta da mani” d’uomo (ossia mortale), ma è eterna.

Nel testo della Vulgata latina vi è un asindeto, cioè assenza di congiunzione: non manufactam, aeternam,che in qualche modo rende ardua la lettura; ma non v’è dubbio che il testo vada letto in questi termini; l’asindeto figura anche nel passo corrispondente della Vulgata graeca. Nella tradizione manoscritta non vi è traccia di interventi volti a chiarire il senso. Ma che un tale chiarimento fosse necessario è evidente dal testo latino quale esso è stato recepito dai molti autori cristiani tardo-antichi e medievali che lo hanno commentato. In questi esso suona così: domum non manufactam sed aeternam in caelis. Delle 19 attestazioni raccolte, ben 11 ricor­rono in scritti di San Tommaso d’Aquino; le altre si leggono in Cromazio di Aquileia, nel Venerabile Beda, in Gregorio Magno, in Bernardino da Siena, in Bonaventura da Bagnoregio, in Pietro il Venerabile, ecc. La decisa prevalenza delle attestazioni in San Tommaso d’Aquino (1225/6-1274) è di estrema importanza perché l’Aqui­na­te, com’è noto, era un Domenicano, e il luogo in cui la nostra iscrizione si trova è stato un convento domenicano per tre secoli, nel quale doveva essere più che ovvia la consuetudine con gli scritti di San Tommaso.

Facendo incidere l’iscrizione, i Domenicani possono avere attinto direttamente al passo della lettera di Paolo oppure hanno adeguato la citazione paolina attingen­do alla tradizione testuale, culturale e teologica del loro Ordine rappresentata dagli scritti di San Tommaso. Questa interpretazione di una citazione “indiretta” del pas­so paolino è da preferire perché, mentre nella lettera di Paolo è presente l’asindeto non manufactam, aeternam, nell’iscrizione l’asindeto è stato corretto con l’introdu­zione della congiunzione sed: no(n) manufacta _ _ _ sed (a)eterna, così come si osser­va in tutte le attestazioni tardo-antiche e medievali della locuzione paolina, com­preso San Tommaso: non manufactam sed aeternam. Che i Domenicani galatinesi avessero consuetudine con le opere del confratello Aquinate è non solo ovvio, ma è anche documentato dal già citato inventario superstite della biblioteca del con­vento, nel quale Tommaso d’Aquino, con nove opere, è l’autore maggiormente pre­sente fra quelli delle 629 opere (in 928 volumi) possedute dalla biblioteca galatine­se dei Domenicani.

Tralasciando altre questioni esegetiche, dobbiamo osservare che il “vuoto epi­grafico” sopra rilevato potrebbe occultare non una lacuna epigrafica integrabile con il termine [domus] sulla base del passo paolino, bensì un rilievo, uno stemma per qualche ragione andato distrutto nel tempo o distrutto intenzionalmente, men­tre l’iscrizione è stata risparmiata (Fig. 6). L’ipotesi di un rilievo o di uno stemma è


Fig. 6. Galatina. Museo Civico “P. Cavoti”. Corridoio interno. Il deterioramento al centro dell’iscrizione No(n) manufacta … (Foto B.V.)

Fig. 7. La “croce gigliata” nello stemma dell’Ordine dei Domenicani.

suggerita da quelli che sembrano i resti di due tratti ovali a punta, fra la M di a(u)­tem e la S di sed, che potrebbero costituire i resti di un rilievo o di uno stemma. Quegli ovali a punta, simmetrici e opposti, potrebbero essere intesi come la raffigu­razione delle estremità del braccio traverso di una croce, secondo il modello della “croce gigliata” raffigurata nello stemma dei Domenicani (Fig. 7) che dalla Spagna si diffuse in Europa nel primo Cinquecento. È probabile che al centro dell’architra­ve fosse rappresentata la sola “croce gigliata” a bracci isomorfi, senza lo scudo e la fascia circolare esterna con il motto dei Domenicani. La “croce gigliata” al centro divideva esattamente in due parti l’iscrizione latina.

In definitiva, riteniamo che l’iscrizione vada letta in questo modo:

(sc.: Domus) no(n) manufacta a(u)tem [croce gigliata] sed (a)eterna in c(a)elis.

«(sc.: Casa) non, però, fatta da mano (umana) [croce gigliata] ma eterna nei cie­li».

Se una ipotesi va fatta sulla distruzione della “croce gigliata” dei Domenicani sul­l’architrave, si può pensare non a un atto violento di vandalismo ma a un gesto quasi controllato di rimozione dello stemma mediante una scalpellatura della pie­tra compiuta quanto basta per obliterare qualsiasi indicazione di appartenenza e di identità del luogo nel momento in cui il convento domenicano venina soppresso e i beni incamerati dallo stato napoletano. Così sembra potersi dedurre dalla super­ficie della pietra non eccessivamente stravolta dai colpi che le sono stati inflitti.

3. L’iscrizione greca

Sull’architrave di una porta finestra che dà sul terrazzo esterno del Museo “P. Cavoti”, sul lato prospiciente la via Pasquale Cafaro, sono incise tre linee di una iscrizione greca rimasta finora sconosciuta e inedita (Fig. 9). Il ritrovamento o la riscoperta dell’iscrizione greca è di assoluto rilievo, dato che essa si aggiunge ad altre due sole iscrizioni greche di Galatina a noi note: una, superstite, incisa sul­l’architrave della porta laterale sud della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria e databile attorno al 1391 circa (da noi stessi riedita e reinterpretata: in corso di stampa; una breve sintesi in Iuncturae 31 maggio 2021 e in Il Galatino del 26 luglio 2021); l’altra, perduta ma recuperata attraverso la tradizione letteraria sei-sette­centesca, documenta il primo grande intervento urbanistico effettuato a San Pietro in Galatina dal Conte di Soleto Raimondo Del Balzo nel 1355 (l’iscrizione è riportata da B. Papadia nelle sue Memorie storiche della città di Galatina nella Iapigia [1792], è stata riedita nella seconda metà dell’Ottocento da Adolf Kirchhoff, uno dei padri della epigrafia greca, e, recentemente, da Linda Safran e da André Jacob). Una spiegazione di tale rarità di iscrizioni greche superstiti in una città che almeno fino a tutto il Cinquecento era stata di cultura e di rito greco, è offerta da A. T. Arcudi nella Galatina letterata (1709), là dove egli ricorda che l’abate Silverio Mezio (1571 circa-1651), cugino di Federico Mezio (1551-1612) vescovo di Termoli, «trasportò nel latino tutte quelle iscrizioni Greche, che erano a suo tempo intagliate nelle Chie­se, e ne’ muri di Galatina … molte delle quali iscrizioni si sono oggi perdute coll’oc­casioni di nuove fabbriche.»

Delle sei porte finestra che affacciano sul terrazzo del Museo, solo la sesta pre­senta una iscrizione sull’architrave. Un dato, questo, che induce a supporre che il blocco sul quale è incisa l’iscrizione greca possa essere una pietra di “reimpiego”, cioè una pietra recuperata da altra parte probabilmente dismessa del convento, se non addirittura da un luogo esterno al convento stesso, e riutilizzata come architra­ve di una delle porte finestra che danno sul terrazzo.

Ciascuna delle tre linee dell’iscrizione è delimitata, sopra e sotto, da un sottile solco continuo inciso sulla pietra come a tracciare dei righi destinati a contenere e ordinare le lettere. La prima linea, incisa con lettere maiuscole di grande dimensio­ne ed eseguite con una certa cura, è interamente leggibile. Delle altre due linee, incise con lettere di minore grandezza e con minore cura, solo poche lettere pos­sono essere ricomposte in un testo di un qualche significato, mentre la maggior parte delle altre rimane indecifrabile. Nella seconda e terza linea, qualche lettera sembrerebbe incisa in carattere minuscolo e qualcuna, sorprendentemente, sem­brerebbe perfino non riconducibile alla grafia greca (come la lettera che ha le for­me di un S latino, a meno che non si tratti del segno greco numerico stigma, Ϛ).

Proponiamo la seguente edizione e traduzione dell’iscrizione:

1.     Ι̣(ησ)[ο]ῦ̣ς Ναζωραῖος ὁ βασιλε̣[ὺ]ς τῶν Ἰουδαίων

2.              Καὶ̣ το̣[ῦ]τ[ον] ἐ̣π̣ὶ̣ δύω θ̣εώμ̣ε̣θ̣α̣ ΙΝΕ̣ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ Π̣Ω̣Ι̣Ω̣Η̣ _ Ṣ(Ϛ ?) _ _

3.                Διὰ τ̣ὸν̣ _ _ _ Ṣ(Ϛ ?) _ _ Ζ̣Ε̣ _ _ (hedera ?) _ _ Π̣α̣Χ̣Ο̣Ṣ(Ϛ ?)Α̣θ̣Ι̣Ṣ(Ϛ ?) _ Ν̣Ο̣ _ _ _

1.      Gesù Nazoreo il re dei Giudei.

2.               E (noi) lo contempliamo in/sotto/davanti a due _ _ _ _

3.                 Per il _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ (hedera ?) _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _ _


Fig. 8. Galatina. Museo Civico “P. Cavoti”. L’iscrizione greca. (Foto B.V.)

La prima linea dell’iscrizione è con tutta evidenza una citazione testuale tratta dal passo del Vangelo di Giovanni relativo alla crocifissione di Gesù (19:16-22, Vulgata graeca), che qui traduciamo:

«16 Allora (sc.: Pilato) lo consegnò loro (sc.: ai sacerdoti) perché fosse crocifisso. Essi dunque presero Gesù 17ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, detto Gòlgota in ebraico, 18 dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. 19 Pilato scrisse anche un’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazoreo [Nazareno nella Vulgata latina], il re dei Giudei”[in greco: Ἰησοῦς ὁ Ναζωραῖος ὁ βασιλεὺς τῶν Ἰουδαίων]. 20 Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. 21 I gran sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: “Non scrivere: Il re dei Giudei, ma: Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”. 22 Rispose Pilato: “Quel che ho scritto, ho scritto !”.»

Nel passo corrispondente della Vulgata latina, l’iscrizione derisoria di Pilato è così tradotta: Iesus Nazarenus rex Iudæorum. Matteo 2:23, condiviso anche da Euse­bio di Cesarea (III-IV secolo), spiegava l’appositivo greco Ναζωραῖος (Nazaraeus nella Vulgata latina), come derivante da Nazareth, il luogo della Galilea nel quale Gesù passò l’infanzia e la giovinezza. Nell’ultima revisione del Greek-English Lexicon of the New Testament (20003), questa etimologia è messa in dubbio. Il termine è anche attestato nelle forme Ναζιραῖος, Ναζωρέως, Ναζαριηνός.

Gli altri tre evangelisti canonici divergono da Giovanni (più nella forma che nella sostanza) nella descrizione della crocifissione (Matteo 27:1-38; Marco 15:1-27; Luca 23:1-43); soprattutto, essi non riportano secondo il testo citato da Giovanni l’iscrizione derisoria sulla presunta regalità di Gesù fatta apporre da Pilato sulla croce e riprodotta tal quale nella nostra iscrizione.

Alla linea 2, l’espressione ἐ̣π̣ὶ̣ δύω è particolarmente intrigante. Senza addentrarci qui nei diversi e complessi problemi linguistici impliciti in questa lettura, l’espressione può essere interpretata in due modi:

1) come allusione al fatto che Gesù fu crocifisso in mezzo a due ladroni e quindi la linea 2 poteva contenere, come la linea 1, una citazione dai Vangeli. Ma, nei Van­geli, la posizione di Gesù crocifisso fra i due ladroni è espressa con modalità lingui­stiche diverse;

2) come allusione alle “due nature” (δύο φύσεις) di Cristo, umana e divina, di­scusse e affermate dal Concilio di Efeso del 431 e dai Padri della Chiesa, discussione che è al centro di numerosi testi teologici bizantini.

La perdita quasi totale delle iscrizioni greche di Galatina impedisce quelle com­parazioni paleografiche necessarie per la definizione della cronologia della nostra iscrizione. Inoltre, alcune incognite gravano pesantemente sulla iscrizione stessa: l’iscrizione greca è stata pensata e realizzata dai Domenicani nel e per il proprio convento?; oppure l’iscrizione greca è estranea al contesto “latino” di un convento domenicano essendo stata lì trasportata, per esempio, da una chiesa greco-bizan­tina dismessa o abbattuta, per essere riutilizzata per il suo contenuto cristologico e salvarla dalla distruzione ?

Alla luce di diverse considerazioni, sembra preferibile l’ipotesi che l’iscrizione provenga da qualche chiesa greco-bizantina non più in uso o abbattuta. Il fatto che l’iscrizione sia stata redatta e incisa in greco farebbe pensare a un’epoca nella quale la lingua e la scrittura greca erano ancora in uso fra la popolazione oppure soltanto nella liturgia. Sappiamo che Nicola Schinzari, deceduto il 15 luglio 1525, fu l’ultimo sacerdote ad avere officiato a Galatina il rito greco nella chiesa di San Pietro, e che egli era stato anche maestro di greco (διδάσκαλος) in un contesto ormai di declino della cultura greca. Ma le dispute sulle liturgie bizantine e latine in Terra d’Otranto rimasero accese fin verso la fine del Cinquecento, e qualche famiglia galatinese di sacerdoti di rito greco o di rinomati cultori del greco (come i Mezio citati sopra) sopravviveva ancora nel Seicento. La nostra iscrizione, costituita da una citazione testuale dal Vangelo greco di Giovanni (linea 1) e, forse, da un riecheggiamento di qualche scritto dei Padri greci della Chiesa sulla doppia natura di Gesù (linee 2-3), potrebbe appartenere a quel contesto ultimo dell’uso liturgico del greco a San Pie­tro di Galatina.


* Si dà qui un resoconto estremamente sintetico (rinunciando anche alle note e alla bibliografia) di un ampio lavoro che apparirà prossimamente nella rivista Archivio Storico Pugliese.

Ringraziamo la Dr. Donatella Trono e lo staff del Museo per la gentile accoglienza e per avere in tutti i modi agevolato le nostre indagini. Ringraziamo anche Don Antonio Santoro, Rettore della chiesa del Collegio, per avere concesso di fotografare l’iscrizione posta sulla porta contigua alla sagrestia.

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