La linea meridionale nella poesia italiana del Novecento

di Antonio Lucio Giannone

Nella prefazione alla raccolta poetica Vidi le Muse di Leonardo Sinisgalli, pubblicata nel 1943,  Gianfranco Contini così scriveva a un certo punto:

E a questo proposito l’inibitivo terrore di non si sa quale aneddotica ha forse impedito di rilevare abbastanza che questi poeti, gente del Sud (siciliano Quasimodo, Sinisgalli lucano, De Libero di Fondi ai limiti del Reame, Gatto di Salerno), saturano l’obbligo a cui non adempié D’Annunzio, prematuramente succhiato dai salotti della città sommarughiana, di aggregare alla poesia una terra fortemente appenninica e meridionale, una terra anteriore alla storia, d’amaro e asciutto incanto tutto immanente (cioè non separabile), terra da cui si va in esilio, oltre che relegata alla generale favola novecentesca dell’infanzia (un equivalente riservatissimo, privo di commento, un equivalente muto e senza lacrime, ne aveva dedotto il solo Verga nelle sue massime sedi)[1].

         Con la consueta acutezza qui Contini individuava la presenza di una linea della poesia italiana novecentesca che si sarebbe ulteriormente sviluppata subito dopo la seconda guerra mondiale e per tutti gli anni Cinquanta, la linea meridionale[2], e al contempo indicava quelli che allora ne erano i principali esponenti: Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli e Alfonso Gatto, ai quali aggiungeva il laziale Libero De Libero.

 Dieci anni dopo, uno di questi poeti, Quasimodo, in una situazione storico-culturale, ormai radicalmente mutata, nel suo famoso Discorso sulla poesia, del 1953, ribadiva l’esistenza di questa linea,  auspicando  addirittura la realizzazione di una «carta poetica del Sud»:

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